
(fonte: Missioni OMI, n. 3/2009, pp. 12-14)
Predicare oggi la Parola
Il ministero della predicazione. Insostituibile e fondamentale per suscitare la fede. Parla Luciano Manicardi, monaco di Bose.
di Pasquale Castrilli
Il contributo che la comunità monastica di Bose ha dato allo studio della Parola di Dio è fuori di ogni discussione.. Da quarant’anni a Bose, tra le colline piemontesi-lombarde, si studia e si prega la Parola e la si colloca in posizione centrale nella vita del cristiano e della Chiesa. Questa esperienza monastica, che coniuga la tradizione antica con la modernità, è sempre più punto di riferimento anche per coloro che sono chiamati al ministero dell’annuncio della Parola che salva. Ne parliamo con Luciano Manicardi, 52 anni, a Bose dal 1980. Autore di numerosi articoli e libri, Manicardi si occupa anche della formazione dei novizi all’interno della comunità.
Come vede il ministero della predicazione della Parola di Dio in Italia oggi?
La situazione della predicazione oggi in Italia deve anzitutto essere considerata positivamente grazie al rinnovamento conciliare, soprattutto grazie al fatto che la Bibbia, quale parola umana che contiene e trasmette, mediante l’azione fecondante dello Spirito, la parola di Dio, è stata riscoperta quale sorgente viva della predicazione. Occorre dire, per esempio, che l’omelia liturgica è spesso biblica, centrata soprattutto sul vangelo, e ha abbandonato, in molti casi, i toni morali o astrattamente dottrinali che a volte la caratterizzavano. A livello catechetico si sono diffuse in molte diocesi importanti ed estremamente vitali forme di catechesi biblica che riuniscono moltissime persone in gruppi in cui la fede è nutrita mediante la lettura biblica opportunamente presentata con sussidi e grazie ad animatori preparati. E si potrebbe continuare.
Tuttavia, circa la predicazione, oggi ci pare di notare alcuni segni preoccupanti: dopo l’entusiasmo successivo al Concilio, ormai da tempo si intravedono segnali di stanchezza nei confronti della parola di Dio e della faticosa lettura biblica; si nota un ritorno di tematiche devozionali; si constata sovente l’incapacità della parola predicata di toccare il tragico delle esistenze dei credenti; a volte emerge la ripetitività o il carattere scolastico-didattico della parola annunciata.
Di fronte a tutto questo occorre rilevare che il ministero della predicazione va situato oggi all’interno del problema di capitale importanza della trasmissione della fede. In un mondo ampiamente scristianizzato, essenzialmente indifferente alle parole della fede, la predicazione, ovvero la capacità di eloquenza e comunicazione della fede, è messa a dura prova, ma ha anche una chance di rinnovamento. Questo significa che una predicazione che si presenti in forma di discorso di esortazione non ha alcuna possibilità di trovare ascolto e di “fare presa” sulle persone; che una predicazione che insista ossessivamente su tematiche etiche o morali e dimentichi il centro del kerygma, rischia di smarrire il proprio centro focale e vitale e di scadere a parola tra le tante, non più caratterizzata dalla propria ineludibile differenza che viene dal vangelo; che una predicazione che parli oggi il linguaggio adatto a un uditorio di qualche decennio fa, non ha alcuna possibilità di farsi ascoltare. E mi riferisco non a modalità sorpassate di comunicazione, non sto pensando a forme di comunicazione del messaggio non à la page, ma al fatto molto più drammatico che la catena della trasmissione oggi si è interrotta e che anche le parole antiche e grandi della fede devono essere radicalmente ri-motivate. La crisi profonda della tradizione evidenzia un fatto che in altre epoche poteva essere disatteso: la fede non va da sé, non viene trasmessa con il latte materno, ma occorre testimoniarla, viverla, dirla, comunicarla, farla divenire storia e parola vivente oggi. L’importanza estrema della predicazione emerge proprio in relazione alla fede e alla sua comunicazione. Infatti, “la fede nasce dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo” (Rm 10,17). E Paolo a chiedersi: “Come [gli uomini] crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci?” (Rm 10,14).
Occorre dunque che oggi la predicazione sappia ritrovare essenzialità e semplicità, capacità di motivarsi non facendo riferimento ad astrattezze teologiche o ad altezze spirituali troppo distanti dalla concretezza umana, ma all’umano nella sua quotidianità. La predicazione di cui oggi c’è bisogno è una parola che mostri convincentemente che la vita di Gesù Cristo, dunque il vangelo, può orientare l’umano, donare senso e direzione all’umano. Ecco allora che la predicazione di cui c’è bisogno è un annuncio testimoniale, coinvolto, in cui la parola evangelica assume integralmente l’umano e si innesta su di esso curandolo con la medicina della misericordia e del perdono, orientandolo indicando una direzione da percorrere e il senso decisivo del vivere, il senso del senso, quindi consolandolo, ma anche correggendolo e raddrizzandolo con l’ammonizione e la messa in guardia.
Credo che oggi la predicazione abbia bisogno di maggiore ascesi e silenzio. Solo così la parola della predicazione potrà ritrovare il suo carattere tagliente, preciso, incisivo, penetrante, che trasmette all’ascoltatore odierno l’impressione già espressa dall’autore della lettera gli Ebrei quando parla della parola di Dio “viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio, che penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12).
Di fronte a predicazioni ancora oggi improvvisate, non preparate, la cui estemporaneità si palesa dopo poche battute, occorre un richiamo forte alla responsabilità di fede del predicatore, la cui autorevolezza non è certo connessa a uno status (presbiterale o religioso), ma alla forza e alla passione con cui comunica quel vangelo che egli stesso sente come vitale per sé e cerca di obbedire e vivere ogni giorno. Dice la Dei Verbum: “È necessario che tutti i chierici, in primo luogo i sacerdoti di Cristo e quanti, come i diaconi o i catechisti, attendono legittimamente al ministero della Parola, conservino un contatto continuo con le Scritture, mediante la sacra lettura assidua e lo studio accurato, affinché non diventi ‘vano predicatore della Parola di Dio all'esterno colui che non l'ascolta di dentro’ (S. Agostino, Serm. 179,1)” (DV 25).
Quali consigli darebbe a coloro che, nella comunità cristiana, svolgono il servizio della predicazione?
Innanzitutto di accordare tempo quotidiano all’ascolto della Parola di Dio contenuta nella Bibbia. Senza l’assiduità con la Scrittura, non si potrà dare forza, profondità ed efficacia alla predicazione. Del resto, è il Concilio Vaticano II che ricorda come la parola di Dio contenuta nella Scrittura sia al cuore e alle radici del ministero della parola: “Il ministero della parola, cioè la predicazione pastorale, la catechesi e tutta l’istruzione cristiana, nella quale l’omelia liturgica deve avere un posto privilegiato, si nutre con profitto e santamente vigoreggia con la parola della Scrittura” (DV 24).
Penso che sia importante uscire da una visione funzionale della lettura della Bibbia, finalizzata a qualcosa da fare, a una predica da preparare, a una catechesi da svolgere. O si coglie la Bibbia come fonte genuina della Parola di Dio a cui ciascun predicatore e ministro della Parola si disseta quotidianamente per nutrire la propria vita di fede e la propria relazione con il Signore, oppure il ministero della predicazione resterà incagliato nelle secche del dovere, di un’attività tra le altre da compiere, di una “prestazione sacra”, ma sarà privato del fuoco della passione e della forza del coinvolgimento esistenziale. Lo statuto del predicatore nella Chiesa è quello del testimone, del mártys. E il testimone testimonia con tutta la sua vita, con il suo corpo, con la sua presenza, non solo con le sue parole.
Naturalmente occorre poi la capacità di adattare i linguaggi ai differenti ascoltatori. E questo non significhi mai un banalizzare o un far scadere il tono e il livello della predicazione con la pretesa della semplicità e del livello “basso” degli uditori. La gente ha sete e fame della Parola di Dio, cerca il volto di Gesù di Nazaret, desidera farsi guidare dall’azione dello Spirito santo, e questo significa che sempre, sia per i bambini che per gli adulti, per i giovani che per i vecchi, per gli uomini come per le donne, la predicazione dev’essere predicazione di Gesù Cristo, dev’essere una parola che ha un chiaro centro cristologico, che narra oggi, nei linguaggi che ciascuno può ascoltare e recepire, il Cristo come salvezza dell’uomo. Si badi dunque a non svilire il contenuto del vangelo con la pretesa di rendere più accessibile il messaggio.
Anche i mezzi con cui si comunica il messaggio cristiano nelle varie forme della predicazione non sono innocenti. Se certamente tutti i mezzi comunicativi possono divenire strumenti utili, è bene ricordare che la comunicazione diretta e personale è sempre il mezzo più naturale ed efficace e che attraverso di essa prima o poi bisogna passare. Penso che la comunicazione di fede che può avvenire nello spazio della paternità e dell’accompagnamento spirituale abbia possibilità di penetrazione ed efficacia particolari per la personalizzazione del messaggio che in tale contesto può avvenire. Inoltre la presenza corporea del predicatore all’ascoltatore (e viceversa) è importante. La comunicazione avviene anche e soprattutto con la gestualità e il tono di voce, attraverso cioè una comunicazione sensoriale, oltreché verbale, che non può che essere diminuita o perduta nel caso di ricorso ai tanti mezzi impersonali che la tecnologia oggi mette a disposizione. Non si dimentichi che “il mezzo è già il messaggio” e che la predicazione di Gesù avveniva pubblicamente davanti alle folle o nel segreto con i suoi discepoli, ma sempre era comunicazione orale diretta, in cui la voce e la parola veicolavano la volontà e la passione, l’amore e l’intenzionalità, il corpo e il cuore di Gesù stesso.
Penso poi che un’attenzione particolare vada accordata ai giovani. Occorre qui sviluppare la propria creatività e immaginazione intelligente per trovare forme di comunicazione coinvolgenti che appassionino il giovane alla parola di Dio. È importante dare fiducia al giovane accordandogli la parola e non subissarlo solamente con le proprie parole ‘magisteriali’: per questo occorre mettere in pratica forme di annuncio dialogico in cui si trasmette anche la fiducia nel giovane, gli si “dice” la sua competenza in quanto ascoltatore della Parola.
Dall’Apostolo Paolo ci viene poi una lezione che è bene non trascurare. Nella sua prima lettera ai cristiani di Corinto egli afferma di non aver mai fondato la sua predicazione sui mezzi retorici, sull’eleganza dell’eloquenza, sulla “sapienza umana”, ma solo sulla forza dello Spirito santo che può manifestarsi anche attraverso modi e forme mondanamente ineleganti (cf. 1Cor 2,1-5). Una predicazione che cerchi la riuscita estetica, che insegua l’affermazione sensazionale, che persegua l’eleganza della forma, rischia di esaurire la propria fecondità nella ricerca della forma cesellata e raffinata divenendo un esercizio compiaciuto di narcisismo del predicatore. E rischia di divenire una predicazione che impressiona ma che non converte, non suscita l’adesione teologale, la risposta orante, bensì porta solo all’applauso rivolto al predicatore. Soprattutto predicatori intellettuali e con poca capacità di adesione al reale possono cadere in questo rischio, che è anche rischio di fare della predicazione non il luogo del proprio servizio alla parola di Dio, ma lo sgabello della propria affermazione come oratore. A costoro occorre ricordare quanto Paolo diceva di se stesso: “Noi non predichiamo noi stessi, ma Gesù Cristo Signore” (2Cor 4,5).
Chi esercita il ministero della Parola non può non divenire un cultore della lectio divina, vero strumento mistagogico di iniziazione alla fede e alla relazione con il Signore. È infatti dall’assiduità con la parola di Dio attraverso la lectio divina che può nascere ed essere nutrito il sensus fidei, così essenziale per una predicazione che edifichi veramente l’edificio ecclesiale. Nel discorso tenuto Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee nel 1995, il card. Joseph Ratzinger si espresse così: “Sono convinto che la lectio divina è l’elemento fondamentale nella formazione del senso della fede e di conseguenza l’impegno più importante per un vescovo maestro della fede”. Chiunque svolge il ministero della Parola nella comunità cristiana è dunque invitato a mettersi alla scuola del Signore e Maestro attraverso la lectio divina.
Pasquale Castrilli
(box)
Un’esperienza di monachesimo moderno
Lo scorso autunno la comunità monastica di Bose ha festeggiato i suoi quaranta anni di vita. Nel 1968 alcuni monaci arrivavano a Magnano (Bi) sulle colline tra Ivrea e Biella. “Che cosa cercavamo? – ha scritto di recente il priore, Enzo Bianchi - Solo la sequela del Signore Gesù, vivendo nella forma della vita monastica e null’altro. Eravamo tutti giovani, forse troppo, forse anche folli nell’intraprendere un’avventura simile… Desideravamo vivere il Vangelo e nient’altro, e ce lo dicevamo con convinzione mai incrinata, con uno sguardo ingenuo che ci veniva dalla nostra età e dalla non conoscenza di tutto quello che ci attendeva: la nostra fragilità, la fatica della vita umana, la grandezza e la miseria della vita monastica...”
Notizie, informazioni e foto di Bose si possono reperire consultando il sito http://www.monasterodibose.it/.
Il ministero della predicazione. Insostituibile e fondamentale per suscitare la fede. Parla Luciano Manicardi, monaco di Bose.
di Pasquale Castrilli
Il contributo che la comunità monastica di Bose ha dato allo studio della Parola di Dio è fuori di ogni discussione.. Da quarant’anni a Bose, tra le colline piemontesi-lombarde, si studia e si prega la Parola e la si colloca in posizione centrale nella vita del cristiano e della Chiesa. Questa esperienza monastica, che coniuga la tradizione antica con la modernità, è sempre più punto di riferimento anche per coloro che sono chiamati al ministero dell’annuncio della Parola che salva. Ne parliamo con Luciano Manicardi, 52 anni, a Bose dal 1980. Autore di numerosi articoli e libri, Manicardi si occupa anche della formazione dei novizi all’interno della comunità.
Come vede il ministero della predicazione della Parola di Dio in Italia oggi?
La situazione della predicazione oggi in Italia deve anzitutto essere considerata positivamente grazie al rinnovamento conciliare, soprattutto grazie al fatto che la Bibbia, quale parola umana che contiene e trasmette, mediante l’azione fecondante dello Spirito, la parola di Dio, è stata riscoperta quale sorgente viva della predicazione. Occorre dire, per esempio, che l’omelia liturgica è spesso biblica, centrata soprattutto sul vangelo, e ha abbandonato, in molti casi, i toni morali o astrattamente dottrinali che a volte la caratterizzavano. A livello catechetico si sono diffuse in molte diocesi importanti ed estremamente vitali forme di catechesi biblica che riuniscono moltissime persone in gruppi in cui la fede è nutrita mediante la lettura biblica opportunamente presentata con sussidi e grazie ad animatori preparati. E si potrebbe continuare.
Tuttavia, circa la predicazione, oggi ci pare di notare alcuni segni preoccupanti: dopo l’entusiasmo successivo al Concilio, ormai da tempo si intravedono segnali di stanchezza nei confronti della parola di Dio e della faticosa lettura biblica; si nota un ritorno di tematiche devozionali; si constata sovente l’incapacità della parola predicata di toccare il tragico delle esistenze dei credenti; a volte emerge la ripetitività o il carattere scolastico-didattico della parola annunciata.
Di fronte a tutto questo occorre rilevare che il ministero della predicazione va situato oggi all’interno del problema di capitale importanza della trasmissione della fede. In un mondo ampiamente scristianizzato, essenzialmente indifferente alle parole della fede, la predicazione, ovvero la capacità di eloquenza e comunicazione della fede, è messa a dura prova, ma ha anche una chance di rinnovamento. Questo significa che una predicazione che si presenti in forma di discorso di esortazione non ha alcuna possibilità di trovare ascolto e di “fare presa” sulle persone; che una predicazione che insista ossessivamente su tematiche etiche o morali e dimentichi il centro del kerygma, rischia di smarrire il proprio centro focale e vitale e di scadere a parola tra le tante, non più caratterizzata dalla propria ineludibile differenza che viene dal vangelo; che una predicazione che parli oggi il linguaggio adatto a un uditorio di qualche decennio fa, non ha alcuna possibilità di farsi ascoltare. E mi riferisco non a modalità sorpassate di comunicazione, non sto pensando a forme di comunicazione del messaggio non à la page, ma al fatto molto più drammatico che la catena della trasmissione oggi si è interrotta e che anche le parole antiche e grandi della fede devono essere radicalmente ri-motivate. La crisi profonda della tradizione evidenzia un fatto che in altre epoche poteva essere disatteso: la fede non va da sé, non viene trasmessa con il latte materno, ma occorre testimoniarla, viverla, dirla, comunicarla, farla divenire storia e parola vivente oggi. L’importanza estrema della predicazione emerge proprio in relazione alla fede e alla sua comunicazione. Infatti, “la fede nasce dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo” (Rm 10,17). E Paolo a chiedersi: “Come [gli uomini] crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci?” (Rm 10,14).
Occorre dunque che oggi la predicazione sappia ritrovare essenzialità e semplicità, capacità di motivarsi non facendo riferimento ad astrattezze teologiche o ad altezze spirituali troppo distanti dalla concretezza umana, ma all’umano nella sua quotidianità. La predicazione di cui oggi c’è bisogno è una parola che mostri convincentemente che la vita di Gesù Cristo, dunque il vangelo, può orientare l’umano, donare senso e direzione all’umano. Ecco allora che la predicazione di cui c’è bisogno è un annuncio testimoniale, coinvolto, in cui la parola evangelica assume integralmente l’umano e si innesta su di esso curandolo con la medicina della misericordia e del perdono, orientandolo indicando una direzione da percorrere e il senso decisivo del vivere, il senso del senso, quindi consolandolo, ma anche correggendolo e raddrizzandolo con l’ammonizione e la messa in guardia.
Credo che oggi la predicazione abbia bisogno di maggiore ascesi e silenzio. Solo così la parola della predicazione potrà ritrovare il suo carattere tagliente, preciso, incisivo, penetrante, che trasmette all’ascoltatore odierno l’impressione già espressa dall’autore della lettera gli Ebrei quando parla della parola di Dio “viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio, che penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12).
Di fronte a predicazioni ancora oggi improvvisate, non preparate, la cui estemporaneità si palesa dopo poche battute, occorre un richiamo forte alla responsabilità di fede del predicatore, la cui autorevolezza non è certo connessa a uno status (presbiterale o religioso), ma alla forza e alla passione con cui comunica quel vangelo che egli stesso sente come vitale per sé e cerca di obbedire e vivere ogni giorno. Dice la Dei Verbum: “È necessario che tutti i chierici, in primo luogo i sacerdoti di Cristo e quanti, come i diaconi o i catechisti, attendono legittimamente al ministero della Parola, conservino un contatto continuo con le Scritture, mediante la sacra lettura assidua e lo studio accurato, affinché non diventi ‘vano predicatore della Parola di Dio all'esterno colui che non l'ascolta di dentro’ (S. Agostino, Serm. 179,1)” (DV 25).
Quali consigli darebbe a coloro che, nella comunità cristiana, svolgono il servizio della predicazione?
Innanzitutto di accordare tempo quotidiano all’ascolto della Parola di Dio contenuta nella Bibbia. Senza l’assiduità con la Scrittura, non si potrà dare forza, profondità ed efficacia alla predicazione. Del resto, è il Concilio Vaticano II che ricorda come la parola di Dio contenuta nella Scrittura sia al cuore e alle radici del ministero della parola: “Il ministero della parola, cioè la predicazione pastorale, la catechesi e tutta l’istruzione cristiana, nella quale l’omelia liturgica deve avere un posto privilegiato, si nutre con profitto e santamente vigoreggia con la parola della Scrittura” (DV 24).
Penso che sia importante uscire da una visione funzionale della lettura della Bibbia, finalizzata a qualcosa da fare, a una predica da preparare, a una catechesi da svolgere. O si coglie la Bibbia come fonte genuina della Parola di Dio a cui ciascun predicatore e ministro della Parola si disseta quotidianamente per nutrire la propria vita di fede e la propria relazione con il Signore, oppure il ministero della predicazione resterà incagliato nelle secche del dovere, di un’attività tra le altre da compiere, di una “prestazione sacra”, ma sarà privato del fuoco della passione e della forza del coinvolgimento esistenziale. Lo statuto del predicatore nella Chiesa è quello del testimone, del mártys. E il testimone testimonia con tutta la sua vita, con il suo corpo, con la sua presenza, non solo con le sue parole.
Naturalmente occorre poi la capacità di adattare i linguaggi ai differenti ascoltatori. E questo non significhi mai un banalizzare o un far scadere il tono e il livello della predicazione con la pretesa della semplicità e del livello “basso” degli uditori. La gente ha sete e fame della Parola di Dio, cerca il volto di Gesù di Nazaret, desidera farsi guidare dall’azione dello Spirito santo, e questo significa che sempre, sia per i bambini che per gli adulti, per i giovani che per i vecchi, per gli uomini come per le donne, la predicazione dev’essere predicazione di Gesù Cristo, dev’essere una parola che ha un chiaro centro cristologico, che narra oggi, nei linguaggi che ciascuno può ascoltare e recepire, il Cristo come salvezza dell’uomo. Si badi dunque a non svilire il contenuto del vangelo con la pretesa di rendere più accessibile il messaggio.
Anche i mezzi con cui si comunica il messaggio cristiano nelle varie forme della predicazione non sono innocenti. Se certamente tutti i mezzi comunicativi possono divenire strumenti utili, è bene ricordare che la comunicazione diretta e personale è sempre il mezzo più naturale ed efficace e che attraverso di essa prima o poi bisogna passare. Penso che la comunicazione di fede che può avvenire nello spazio della paternità e dell’accompagnamento spirituale abbia possibilità di penetrazione ed efficacia particolari per la personalizzazione del messaggio che in tale contesto può avvenire. Inoltre la presenza corporea del predicatore all’ascoltatore (e viceversa) è importante. La comunicazione avviene anche e soprattutto con la gestualità e il tono di voce, attraverso cioè una comunicazione sensoriale, oltreché verbale, che non può che essere diminuita o perduta nel caso di ricorso ai tanti mezzi impersonali che la tecnologia oggi mette a disposizione. Non si dimentichi che “il mezzo è già il messaggio” e che la predicazione di Gesù avveniva pubblicamente davanti alle folle o nel segreto con i suoi discepoli, ma sempre era comunicazione orale diretta, in cui la voce e la parola veicolavano la volontà e la passione, l’amore e l’intenzionalità, il corpo e il cuore di Gesù stesso.
Penso poi che un’attenzione particolare vada accordata ai giovani. Occorre qui sviluppare la propria creatività e immaginazione intelligente per trovare forme di comunicazione coinvolgenti che appassionino il giovane alla parola di Dio. È importante dare fiducia al giovane accordandogli la parola e non subissarlo solamente con le proprie parole ‘magisteriali’: per questo occorre mettere in pratica forme di annuncio dialogico in cui si trasmette anche la fiducia nel giovane, gli si “dice” la sua competenza in quanto ascoltatore della Parola.
Dall’Apostolo Paolo ci viene poi una lezione che è bene non trascurare. Nella sua prima lettera ai cristiani di Corinto egli afferma di non aver mai fondato la sua predicazione sui mezzi retorici, sull’eleganza dell’eloquenza, sulla “sapienza umana”, ma solo sulla forza dello Spirito santo che può manifestarsi anche attraverso modi e forme mondanamente ineleganti (cf. 1Cor 2,1-5). Una predicazione che cerchi la riuscita estetica, che insegua l’affermazione sensazionale, che persegua l’eleganza della forma, rischia di esaurire la propria fecondità nella ricerca della forma cesellata e raffinata divenendo un esercizio compiaciuto di narcisismo del predicatore. E rischia di divenire una predicazione che impressiona ma che non converte, non suscita l’adesione teologale, la risposta orante, bensì porta solo all’applauso rivolto al predicatore. Soprattutto predicatori intellettuali e con poca capacità di adesione al reale possono cadere in questo rischio, che è anche rischio di fare della predicazione non il luogo del proprio servizio alla parola di Dio, ma lo sgabello della propria affermazione come oratore. A costoro occorre ricordare quanto Paolo diceva di se stesso: “Noi non predichiamo noi stessi, ma Gesù Cristo Signore” (2Cor 4,5).
Chi esercita il ministero della Parola non può non divenire un cultore della lectio divina, vero strumento mistagogico di iniziazione alla fede e alla relazione con il Signore. È infatti dall’assiduità con la parola di Dio attraverso la lectio divina che può nascere ed essere nutrito il sensus fidei, così essenziale per una predicazione che edifichi veramente l’edificio ecclesiale. Nel discorso tenuto Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee nel 1995, il card. Joseph Ratzinger si espresse così: “Sono convinto che la lectio divina è l’elemento fondamentale nella formazione del senso della fede e di conseguenza l’impegno più importante per un vescovo maestro della fede”. Chiunque svolge il ministero della Parola nella comunità cristiana è dunque invitato a mettersi alla scuola del Signore e Maestro attraverso la lectio divina.
Pasquale Castrilli
(box)
Un’esperienza di monachesimo moderno
Lo scorso autunno la comunità monastica di Bose ha festeggiato i suoi quaranta anni di vita. Nel 1968 alcuni monaci arrivavano a Magnano (Bi) sulle colline tra Ivrea e Biella. “Che cosa cercavamo? – ha scritto di recente il priore, Enzo Bianchi - Solo la sequela del Signore Gesù, vivendo nella forma della vita monastica e null’altro. Eravamo tutti giovani, forse troppo, forse anche folli nell’intraprendere un’avventura simile… Desideravamo vivere il Vangelo e nient’altro, e ce lo dicevamo con convinzione mai incrinata, con uno sguardo ingenuo che ci veniva dalla nostra età e dalla non conoscenza di tutto quello che ci attendeva: la nostra fragilità, la fatica della vita umana, la grandezza e la miseria della vita monastica...”
Notizie, informazioni e foto di Bose si possono reperire consultando il sito http://www.monasterodibose.it/.
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