Ricostruire l’uomo
Parla don Francesco Leone, parroco a L’Aquila. “Nella fase di ricostruzione è necessario pensare anche alla spirito e non solo alle cose materiali”.
di Pasquale Castrilli
Il centro storico dell’Aquila ha un’aria quasi spettrale. Lunghi silenzi interrotti dai rumori delle pale meccaniche e dalle attrezzature dei Vigili del Fuoco che lavorano ininterrottamente dal 6 aprile, giorno del sisma, soprattutto per le verifiche strutturali e l’accompagnamento agli abitanti nelle loro case per recuperare beni essenziali. La cosiddetta ‘zona rossa’ della città abruzzese, quella interdetta alla popolazione nei primi mesi dopo il sima, per il pericolo di crolli, appare come un’area fantasma, un cuore che non pompa più vita al suo organismo.
La vistiamo con alcuni giovani del Movimento Giovanile Costruire in una calda e umida domenica estiva. A farci da guida don Francesco Leone da sette anni parroco a S. Pietro, una delle quattro parrocchie del centro storico cittadino.
Don Francesco, raccontaci i tuoi ricordi dei primi momenti. Come avete vissuto questo dramma?
Ciò che dominava nelle prime ore dopo il sisma era il silenzio e una solidarietà vissuta, quasi un sorreggersi a vicenda, in maniera tacita. Si osservavano i danni e si pensava alle persone che non raggiungevano i punti di raccolta stabiliti dai Vigili del Fuoco. Poi con i Vigili del Fuoco si è fatta la conta dei superstiti, individuando nelle case coloro che vi abitavano. La gente cercava in ogni modo di contattare i parenti che abitavano in altre zone della città oppure avvisare i congiunti. Pian piano si cominciava a capire l’enorme entità del disastro. I telefoni all’inizio erano intasati perché i ponti telefonici erano saltati. Per ripristinarli ci sono volute parecchie ore. Ci si è mesi poi a girare con le macchine per vedere le zone più distrutte della città. Nessuno si è disinteressato, ma tutti si sono dati da fare; una solidarietà non organizzata ma animata dalla carità fraterna.
Tra le vittime molti erano tuoi parrocchiani. Come hai vissuto la solidarietà verso questa gente?
Sottolineo che è il territorio della mia parrocchia è quartiere più colpito della città. Non c’è un vicolo che non abbia avuto una casa distrutta dal sisma. La solidarietà era palpabile e anche la figura del sacerdote è stata un punto di riferimento molto importante, perché veniva cercata, desiderata e quando passavo la gente mi abbracciava e si buttava al collo piangendo e dicendo la frase “Guarda cosa ci è accaduto, don Francesco, guarda cosa ci è accaduto…”
E’ scattata subito una rete di solidarietà, sia a livello della regione, che a livello italiano e anche a livello internazionale. Mi pare un bel segno: in un’epoca in cui ognuno pensa a sé e in piccolo, un segno di solidarietà così…
Noi abbiamo visto immediatamente la solidarietà in azione. Sono entrati in campo subito per le prime azioni di salvataggio i Vigili del fuoco. Immediatamente sono arrivati da Teramo e anche il Pronto soccorso del 118. Immediati sono stati anche gli operatori di Avezzano e successivamente quelli di Sulmona, Chieti e Pescara. Dopo qualche ora è arrivata la Protezione civile da Roma via autostrada e si sono istallati, noncuranti anche di alcuni possibili pericoli. La macchina dei soccorsi ha funzionato. Una cosa che ha colpito tutti gli aquilani che noi abbiamo avuto la solidarietà e l’interesse non solo dell’Italia, ma dell’Europa e del mondo intero. La città non era molto conosciuta, ma adesso, con questo sisma, c’è un attenzione internazionale per la considerazione che i mezzi di comunicazione hanno dato alla città.
Tu hai fatto la scelta di vivere con la tua roulotte in uno dei campi. Come è la vita nelle tendopoli? Qual è il tuo rapporto con la gente? Cosa dicono le persone di questo sacerdote che vive con loro?
Ho fatto questa scelta perché nella mia vita sacerdotale ho scelto di essere prete tra la gente. E soprattutto nei momenti di difficoltà, momenti tragici, come può essere questo evento, l’epicentro di un sisma, mi sembrava opportuno dare quella presenza che fosse lievito di speranza, un segno visibile. La gente reagisce in modo differente davanti a questi eventi naturali, colpevolizzando spesso Dio che non c’entra nulla… Come ho caldeggiato più volte nelle omelie domenicali: non è da intendersi come castigo ma come prova. Il terremoto è un evento naturale e Gesù nel Vangelo ci ha detto che lui non ci ha tolto né la sofferenza né la malattia, non ci ha tolto neppure i disastri naturali, ma ha preso su di sé il dolore del mondo. Questo è altra cosa: gli ha dato un nuovo senso. E’ il ‘Dio accanto’ che soffre con me, che vive con me quel disagio, nella libertà, non solo dell’uomo, ma anche della natura. Non ho fatto altro che essere ‘il prete della ricostruzione spirituale’ come ha detto anche la stampa. Tentare anche una ricostruzione spirituale, sanare l’uomo partendo da dentro, puntare alla guarigione interiore per arrivare poi a sanare le ferite materiali e ad avere una casa che qui è tanto desiderata. Io non ho fatto altro che ripetere alla gente: puntiamo al rinnovamento interiore della persona per fare nuove tutte le cose che il sisma ha distrutto. Perché questa è la vera tragedia del sisma: è l’uomo interiore che è stato senz’altro segnato da questa tragedia, ma che di questa tragedia non ha fatto tesoro per ricominciare, per interrogarsi e fermarsi a riflettere. E anche la vita nelle tendopoli rischia di essere vissuta in modo secolarizzato, si pensa al benessere fisico, psicologico ed economico, ma non c’è nessuna cura del benessere spirituale.
Siamo stati con te nel centro storico, abbiamo visto i disastri causati dal sisma. I tempi di ricostruzione si prospettano lunghi. Come vedi il futuro del centro storico, della città e della gente?
Il professor Russo, ordinario di ingegneria strutturale dell’università di Venezia, mi ha detto che se ci sono i fondi ci vorranno dieci anni per la ricostruzione del centro storico anche per la struttura tipica del centro, dentro la cinta delle mura spagnole. Ma se non ci sono i soldi ci vorranno trent’anni. La vita della città potrebbe riprendere nel giro di tre anni a pieno regime, nella periferia, mentre quella del centro storico è un’operazione di ricostruzione molto delicata. Io ho proposto un progetto che ho inviato anche alle autorità civili, municipali e provinciali: ricostruire le quattro Chiese che hanno dato vita alla città, con i quattro quartieri. La Chiesa per prima e poi tutt’intorno le case e riportare il centro storico al suo antico splendore.
Parla don Francesco Leone, parroco a L’Aquila. “Nella fase di ricostruzione è necessario pensare anche alla spirito e non solo alle cose materiali”.
di Pasquale Castrilli
Il centro storico dell’Aquila ha un’aria quasi spettrale. Lunghi silenzi interrotti dai rumori delle pale meccaniche e dalle attrezzature dei Vigili del Fuoco che lavorano ininterrottamente dal 6 aprile, giorno del sisma, soprattutto per le verifiche strutturali e l’accompagnamento agli abitanti nelle loro case per recuperare beni essenziali. La cosiddetta ‘zona rossa’ della città abruzzese, quella interdetta alla popolazione nei primi mesi dopo il sima, per il pericolo di crolli, appare come un’area fantasma, un cuore che non pompa più vita al suo organismo.
La vistiamo con alcuni giovani del Movimento Giovanile Costruire in una calda e umida domenica estiva. A farci da guida don Francesco Leone da sette anni parroco a S. Pietro, una delle quattro parrocchie del centro storico cittadino.
Don Francesco, raccontaci i tuoi ricordi dei primi momenti. Come avete vissuto questo dramma?
Ciò che dominava nelle prime ore dopo il sisma era il silenzio e una solidarietà vissuta, quasi un sorreggersi a vicenda, in maniera tacita. Si osservavano i danni e si pensava alle persone che non raggiungevano i punti di raccolta stabiliti dai Vigili del Fuoco. Poi con i Vigili del Fuoco si è fatta la conta dei superstiti, individuando nelle case coloro che vi abitavano. La gente cercava in ogni modo di contattare i parenti che abitavano in altre zone della città oppure avvisare i congiunti. Pian piano si cominciava a capire l’enorme entità del disastro. I telefoni all’inizio erano intasati perché i ponti telefonici erano saltati. Per ripristinarli ci sono volute parecchie ore. Ci si è mesi poi a girare con le macchine per vedere le zone più distrutte della città. Nessuno si è disinteressato, ma tutti si sono dati da fare; una solidarietà non organizzata ma animata dalla carità fraterna.
Tra le vittime molti erano tuoi parrocchiani. Come hai vissuto la solidarietà verso questa gente?
Sottolineo che è il territorio della mia parrocchia è quartiere più colpito della città. Non c’è un vicolo che non abbia avuto una casa distrutta dal sisma. La solidarietà era palpabile e anche la figura del sacerdote è stata un punto di riferimento molto importante, perché veniva cercata, desiderata e quando passavo la gente mi abbracciava e si buttava al collo piangendo e dicendo la frase “Guarda cosa ci è accaduto, don Francesco, guarda cosa ci è accaduto…”
E’ scattata subito una rete di solidarietà, sia a livello della regione, che a livello italiano e anche a livello internazionale. Mi pare un bel segno: in un’epoca in cui ognuno pensa a sé e in piccolo, un segno di solidarietà così…
Noi abbiamo visto immediatamente la solidarietà in azione. Sono entrati in campo subito per le prime azioni di salvataggio i Vigili del fuoco. Immediatamente sono arrivati da Teramo e anche il Pronto soccorso del 118. Immediati sono stati anche gli operatori di Avezzano e successivamente quelli di Sulmona, Chieti e Pescara. Dopo qualche ora è arrivata la Protezione civile da Roma via autostrada e si sono istallati, noncuranti anche di alcuni possibili pericoli. La macchina dei soccorsi ha funzionato. Una cosa che ha colpito tutti gli aquilani che noi abbiamo avuto la solidarietà e l’interesse non solo dell’Italia, ma dell’Europa e del mondo intero. La città non era molto conosciuta, ma adesso, con questo sisma, c’è un attenzione internazionale per la considerazione che i mezzi di comunicazione hanno dato alla città.
Tu hai fatto la scelta di vivere con la tua roulotte in uno dei campi. Come è la vita nelle tendopoli? Qual è il tuo rapporto con la gente? Cosa dicono le persone di questo sacerdote che vive con loro?
Ho fatto questa scelta perché nella mia vita sacerdotale ho scelto di essere prete tra la gente. E soprattutto nei momenti di difficoltà, momenti tragici, come può essere questo evento, l’epicentro di un sisma, mi sembrava opportuno dare quella presenza che fosse lievito di speranza, un segno visibile. La gente reagisce in modo differente davanti a questi eventi naturali, colpevolizzando spesso Dio che non c’entra nulla… Come ho caldeggiato più volte nelle omelie domenicali: non è da intendersi come castigo ma come prova. Il terremoto è un evento naturale e Gesù nel Vangelo ci ha detto che lui non ci ha tolto né la sofferenza né la malattia, non ci ha tolto neppure i disastri naturali, ma ha preso su di sé il dolore del mondo. Questo è altra cosa: gli ha dato un nuovo senso. E’ il ‘Dio accanto’ che soffre con me, che vive con me quel disagio, nella libertà, non solo dell’uomo, ma anche della natura. Non ho fatto altro che essere ‘il prete della ricostruzione spirituale’ come ha detto anche la stampa. Tentare anche una ricostruzione spirituale, sanare l’uomo partendo da dentro, puntare alla guarigione interiore per arrivare poi a sanare le ferite materiali e ad avere una casa che qui è tanto desiderata. Io non ho fatto altro che ripetere alla gente: puntiamo al rinnovamento interiore della persona per fare nuove tutte le cose che il sisma ha distrutto. Perché questa è la vera tragedia del sisma: è l’uomo interiore che è stato senz’altro segnato da questa tragedia, ma che di questa tragedia non ha fatto tesoro per ricominciare, per interrogarsi e fermarsi a riflettere. E anche la vita nelle tendopoli rischia di essere vissuta in modo secolarizzato, si pensa al benessere fisico, psicologico ed economico, ma non c’è nessuna cura del benessere spirituale.
Siamo stati con te nel centro storico, abbiamo visto i disastri causati dal sisma. I tempi di ricostruzione si prospettano lunghi. Come vedi il futuro del centro storico, della città e della gente?
Il professor Russo, ordinario di ingegneria strutturale dell’università di Venezia, mi ha detto che se ci sono i fondi ci vorranno dieci anni per la ricostruzione del centro storico anche per la struttura tipica del centro, dentro la cinta delle mura spagnole. Ma se non ci sono i soldi ci vorranno trent’anni. La vita della città potrebbe riprendere nel giro di tre anni a pieno regime, nella periferia, mentre quella del centro storico è un’operazione di ricostruzione molto delicata. Io ho proposto un progetto che ho inviato anche alle autorità civili, municipali e provinciali: ricostruire le quattro Chiese che hanno dato vita alla città, con i quattro quartieri. La Chiesa per prima e poi tutt’intorno le case e riportare il centro storico al suo antico splendore.
Visita a L’Aquila. Le impressioni dei giovani
“Mi ha colpito la gioia delle persone incontrate nel saperci vicini a loro e la loro paura di essere abbandonati. Durante il primo pomeriggio, nel corso del giro per il centro storico con Don Francesco ed Ilaria, la sua catechista, ho avuto la possibilità di vedere con i miei occhi il disastro del terremoto, ma soprattutto la possibilità di associare a delle immagini viste in tv, a delle case distrutte, delle persone concrete. La vita nelle tendopoli è molto difficile soprattutto da un punto di vista psicologico a causa della mancanza delle piccole cose ordinarie. A questo proposito vi riferisco un episodio che mi ha molto colpito. Nel pomeriggio siamo stati a casa di Ilaria, o meglio nel giardino della sua casa dove c’è la loro tenda, e la mamma ci ha offerto delle ciliegie. Una volta finito, io e Mariasara c’eravamo alzate per aiutare la Signora a sistemare e lei ci ha detto di lasciarla fare se no non sapeva cos’altro fare per tutto il pomeriggio! Abbiamo salutato gli aquilani incontrati, con la promessa di pregare per loro e di farci testimoni della loro condizione.”(Gioconda)
“La prima cosa che mi ha colpito è stata la disponibilità di una ragazza catechista, Ilaria. Da una mano al parroco, don Francesco, ed è spesso indispensabile nel gestire anche le cose più semplici, come preoccuparsi del materiale necessario per la Messa. E a volte io mi permetto di pensare che la comunità mi chiede troppi sacrifici! C’è stato poi il primo incontro con le persone nella tendopoli: poche, prevalentemente anziane, ma con una grande sete di relazioni. Ho avvertito in loro più che un bisogno di sfogarsi, un bisogno di qualcuno che gli desse speranza, la speranza di una vita presto “normale”, speranza che difficilmente riescono a trovare da soli. L’esperienza poi per me più toccante è stata la visita al centro storico della città. Vedere una città apparentemente normale (non fosse per le macerie), con negozi, insegne, studi, completamente disabitata, una “città fantasma” mi ha fatto un certo effetto. Ed ogni particolare, ogni porta lasciata aperta, ogni facciata scoperta, mi faceva pensare a quello che poteva essere accaduto in quel preciso luogo, a chissà quali corse, pianti, paure... ” (Enzo)
“Stare con la gente del campo e avvertirne il disagio, il senso di attesa perenne, la linea sottile che li separa dalla disperazione e dal perdere la speranza… all’inizio non capivo bene, ma poi, girando per la città distrutta, vedendo la devastazione, sentendo le storie di chi abitava in quelle case, ora macerie, pensando a come in un tempo piccolissimo si possa perdere tutto quello che rappresenta la quotidianità e il fulcro della vita, la casa innanzitutto, ho iniziato a capire. E a sentirmi più vicina alle persone, a sentirne la grande sofferenza e a pregare che non perdano la forza. Vivere nel campo, senza intimità, con i tempi scanditi solo dalle file per i pasti è davvero dura! E allora ogni avvenimento che interrompa la routine diventa importante! Era così anche per la piccola processione che abbiamo organizzato per il Corpus Domini, ma poi mi sono resa conto che qualcosa di diverso c’era. Io non amo le processioni, non ci partecipo quasi mai perché di solito sono un’occasione mondana, superficiale e un po’ folkloristica, specie nel mio paese, ma alla tendopoli ho partecipato alla prima vera processione della mia vita. C’era Gesù, vivo, in mezzo a noi, davvero ne avvertivo la presenza e quella presenza riempiva i volti in preghiera delle persone, degli anziani e delle donne, e a quella presenza ho affidato le vite di tutte le persone che avevamo conosciuto, affinché, anche se tutto crolla, Lui e solo Lui possa essere la loro forza e la loro speranza.” (Mariasara)
“Mi ha colpito la gioia delle persone incontrate nel saperci vicini a loro e la loro paura di essere abbandonati. Durante il primo pomeriggio, nel corso del giro per il centro storico con Don Francesco ed Ilaria, la sua catechista, ho avuto la possibilità di vedere con i miei occhi il disastro del terremoto, ma soprattutto la possibilità di associare a delle immagini viste in tv, a delle case distrutte, delle persone concrete. La vita nelle tendopoli è molto difficile soprattutto da un punto di vista psicologico a causa della mancanza delle piccole cose ordinarie. A questo proposito vi riferisco un episodio che mi ha molto colpito. Nel pomeriggio siamo stati a casa di Ilaria, o meglio nel giardino della sua casa dove c’è la loro tenda, e la mamma ci ha offerto delle ciliegie. Una volta finito, io e Mariasara c’eravamo alzate per aiutare la Signora a sistemare e lei ci ha detto di lasciarla fare se no non sapeva cos’altro fare per tutto il pomeriggio! Abbiamo salutato gli aquilani incontrati, con la promessa di pregare per loro e di farci testimoni della loro condizione.”(Gioconda)
“La prima cosa che mi ha colpito è stata la disponibilità di una ragazza catechista, Ilaria. Da una mano al parroco, don Francesco, ed è spesso indispensabile nel gestire anche le cose più semplici, come preoccuparsi del materiale necessario per la Messa. E a volte io mi permetto di pensare che la comunità mi chiede troppi sacrifici! C’è stato poi il primo incontro con le persone nella tendopoli: poche, prevalentemente anziane, ma con una grande sete di relazioni. Ho avvertito in loro più che un bisogno di sfogarsi, un bisogno di qualcuno che gli desse speranza, la speranza di una vita presto “normale”, speranza che difficilmente riescono a trovare da soli. L’esperienza poi per me più toccante è stata la visita al centro storico della città. Vedere una città apparentemente normale (non fosse per le macerie), con negozi, insegne, studi, completamente disabitata, una “città fantasma” mi ha fatto un certo effetto. Ed ogni particolare, ogni porta lasciata aperta, ogni facciata scoperta, mi faceva pensare a quello che poteva essere accaduto in quel preciso luogo, a chissà quali corse, pianti, paure... ” (Enzo)
“Stare con la gente del campo e avvertirne il disagio, il senso di attesa perenne, la linea sottile che li separa dalla disperazione e dal perdere la speranza… all’inizio non capivo bene, ma poi, girando per la città distrutta, vedendo la devastazione, sentendo le storie di chi abitava in quelle case, ora macerie, pensando a come in un tempo piccolissimo si possa perdere tutto quello che rappresenta la quotidianità e il fulcro della vita, la casa innanzitutto, ho iniziato a capire. E a sentirmi più vicina alle persone, a sentirne la grande sofferenza e a pregare che non perdano la forza. Vivere nel campo, senza intimità, con i tempi scanditi solo dalle file per i pasti è davvero dura! E allora ogni avvenimento che interrompa la routine diventa importante! Era così anche per la piccola processione che abbiamo organizzato per il Corpus Domini, ma poi mi sono resa conto che qualcosa di diverso c’era. Io non amo le processioni, non ci partecipo quasi mai perché di solito sono un’occasione mondana, superficiale e un po’ folkloristica, specie nel mio paese, ma alla tendopoli ho partecipato alla prima vera processione della mia vita. C’era Gesù, vivo, in mezzo a noi, davvero ne avvertivo la presenza e quella presenza riempiva i volti in preghiera delle persone, degli anziani e delle donne, e a quella presenza ho affidato le vite di tutte le persone che avevamo conosciuto, affinché, anche se tutto crolla, Lui e solo Lui possa essere la loro forza e la loro speranza.” (Mariasara)
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